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IL DESIDERIO CHE FINISCA LA GENOCIDIO DI GAZA, TRA IMPOTENZA E SPERANZA

Pubblicato il 16/10/2025

Esiste un piano ulteriore, al di là dei risultati, per cui si parla e si agisce "contro ogni speranza", tenendo alti i valori.  

Cari amici lettori, dopo l'avvio dell'operazione militare israeliana "Carri di Gedeone" per entrare nel cuore di Gaza City e radere al suolo tutto per "stanare" Hamas, l'indignazione e il desiderio di ribellarsi (in modo civile) a qualcosa di inaccettabile tormentano molti e accendono il dibattito pubblico. Da una parte, a fine agosto fa, il regista Pupi Avati aveva dichiarato, riferendosi alla protesta di attori e registi contro il massacro a Gaza: «Ma davvero pensiamo che una marcia a Venezia durante la Mostra del Cinema possa cambiare le cose?». È quello che forse, in sostanza, pensano in molti. Ma, siccome è molto frustrante e alla lunga insopportabile accettare che di fronte a questa tragica "soluzione finale" noi persone comuni siamo pressoché impotenti, finiamo per rimuovere anche solo il pensiero.

Dall'altra parte, ci sono iniziative che mirano ad attivarsi per quel "poco" (o tanto?) che è possibile per fare pressione su governi oltre che sull'opinione pubblica: abbiamo così l'iniziativa della rete internazionale dei "Preti contro il genocidio" a Gaza e nei Territori occupati. 550 sacerdoti cattolici, provenienti da 21 Paesi, «per affermare la nostra risposta da presbiteri alla guerra» e condannare «la risposta sproporzionata contro il popolo palestinese». O come il toccante appello che sta girando, lanciato da suor Giovanna, della comunità della Piccola Famiglia dell'Annunziata, che sta a Ma'in, vicino al confine con la Cisgiordania e denuncia l'inerzia del mondo dei religiosi. «La mia coscienza mi tormenta, perché questo restare inerti ci rende complici», scrive. Ma, prosegue, «non possiamo cedere alla logica dell'impotenza... Mi addolora profondamente vedere una Chiesa quasi silente». E conclude: «Non può esserci neutralità davanti a un genocidio. O si è complici, o si sceglie la verità. E oggi, la verità urla dalle macerie di Gaza». La sua proposta a religiosi e religiose: radunarsi davanti al Quirinale, leggendo i Salmi e il Vangelo, per chiedere che finisca la vendita di armi a Israele e si interrompano i legami economici con lo Stato ebraico, per non finanziare la guerra. C'è persino l'appello (lo scorso 12 agosto) di una pop star come Madonna che chiede al Papa di andare di persona a Gaza, immaginando che questo possa risolvere le cose.

Sono posizioni che ci interrogano su un aspetto della nostra fede: conta solo il piano pragmatico, il risultato? Serve fare qualcosa dagli esiti incerti o addirittura nulli? Serve anche pregare? Mi ha colpito in proposito, nella prima intervista rilasciata da papa Leone a Crux, la distinzione tra il piano realistico delle cose (si riferiva alla domanda sulla possibile mediazione del Vaticano nel conflitto russo-ucraino) e «la voce della Santa Sede che sostiene la pace». Come a dire che esiste un piano ulteriore, al di là dei risultati, per cui si parla "contro ogni speranza", perché ci sono valori come la giustizia, la pace, il bene comune da tenere alti e che possono far breccia nelle coscienze. La speranza cristiana, in fin dei conti, a cui il Papa faceva riferimento, non parte da ciò che esiste, ma spera in ciò che ancora non è (ed è possibile) (cf. Romani 8, 24-25). Una flebile speranza che sostiene anche coloro che - di fronte a una distruzione che sembra inarrestabile - pregano e quanti provano, in nome della fede (o di altre convinzioni) e per il «corpo crocifisso dell'umanità» (parole di suor Giovanna), a fare qualcosa. Fosse anche una goccia nel mare.


di: don Vincenzo Vitale
da: Credere 39/2025


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